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No Contact. Cos'è e perché può essere una possibilità.

  • alesefederica
  • 25 set
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 1 giorno fa

Il No Contact è una modalità di difesa messa in atto nei confronti di una relazione considerata per sé stessi dannosa, e prevede l'evitare qualsiasi contatto con la persona in questione.

Nasce per lo più come protezione e sgancio da una relazione sentimentale abusante, ma, negli ultimi anni, si è diffusa anche in ambito familiare. Interrompere i rapporti con genitori disfunzionali, abusanti, manipolativi.

Non se ne parla ancora molto, perché siamo immersi in una cultura che idealizza i genitori e il loro ruolo. Pensare di mettere in atto un distanziamento così crudo e netto, potrebbe far vacillare qualsiasi “boomer” che passa nelle vicinanze!


È qualcosa che nasce dall’idealizzazione della nascita stessa, “io ti sto creando, io ti sto dando la vita”, un gesto che prevede qualcosa di “divino”; ma anche un cordone che non si può staccare, non si può rompere, perché “IO ti ho creato”. Questo prevede di fatto una dipendenza, emotiva e affettiva, che molto genitori pretendono dai loro figli, che siano bambini o adulti.

Sono convinta che il concetto di genitorialità andrebbe rivisto, revisionato, supportato e reso più autentico, ma penso ci siano ancora diversi decenni di fronte a noi per vedere un cambiamento significativo.


Ma tornando al No Contact, voglio citare un articolo di ELLE di Carlotta Sisti, uscito il 22 settembre 2025, nel quale vengono intervistate due donne; una di queste è Valentina Tridente, content creator che seguo su TiKTok e che sicuramente conoscerete come Il Podcast del Disagio. Ironica, puntuale, chiara, semplice, è una donna che parla di “terapia, femminismo, beauty e canetti”, questa la sua descrizione sui social. Ci tengo a specificare che parla di terapia da paziente, da persona che si è messa in gioco, e proprio in questa divulgazione ha condiviso con i suoi follower la decisione di No Contact con i suoi genitori, come spiega nell’articolo.


Proviamo ad immergerci in questo concetto tramite l’approccio sistemico relazionale (come sempre, aggiungerei).


Nel momento in cui il figlio diventa un giovane adulto, e quindi maggiorenne, vive un processo chiamato svincolo, cioè uno svincolarsi dalla famiglia di origine per diventare adulto e creare la propria famiglia, che può essere composta da sé stesso/a, da una coppia, da una coppia con i figli, da sé stesso/a con figli, ecc, ecc. (non basta mai ricordare che le famiglie sono di tantissimi tipi e che tutte vanno benissimo!).

Lo svincolo, però, non inizia a 18 anni, ma un po’ prima, probabilmente già da come viene gestita e affrontata la nascita e la crescita, ma rimaniamo più vicini, puntiamo il nostro binocolo sul momento dell’adolescenza: il ragazzo/la ragazza comincia ad affacciarsi alla finestra del mondo, uscendo e sperimentandosi in luoghi sociali, ma sapendo di poter tornare a casa per una coccola, una sicurezza, un aiuto. Dobbiamo immaginare questo processo come una molla, che si tira e poi torna dietro, si tira di nuovo e poi indietro, fino a che l’adolescente non è simbolicamente pronto per diventare un adulto.

Sappiamo bene che la vera età adulta inizia un po’ più in là, perché a 19 anni, usciti dalle superiori, i ragazzi non hanno possibilità economiche o lavorative o di vita per poter iniziare un loro percorso; sono quindi costretti ad essere ancora dipendenti economicamente dai genitori.

Il momento dello svincolo è uno dei più delicati, complessi e sottili che viviamo, perché se abbiamo toccato con mano la disfunzionalità è davvero difficile credere e sperare di potercela fare.

Cosa succede se i genitori, invece di agevolare questo momento, difficile anche per loro, mettono in atto manipolazioni comunicative e relazionali, per sviluppare un senso di colpa che porta il figlio a faticare il doppio, il triplo, per uscire da questa famiglia? E cosa succede se queste manipolazioni erano presenti già prima? E se insieme ci fossero anche svalutazioni, violenze psicologiche, anaffettività, disprezzo, non amore, non cura, non protezione?


Succede che il figlio soffre. E soffre ancora di più perché la cosa più spinosa da fare all’interno di una relazione di attaccamento, è comprendere che il genitore è un genitore disfunzionale. È un dolore enorme. Si inventano scuse, si giustifica, si cerca disperatamente amore, che puntualmente non arriva.


La decisione del No Contact arriva in questo quadro: in anni di dolore, di prove, di speranze che il genitore possa cambiare, di amore “tossico” (come si usa dire oggi).

Nell’articolo, Valentina ci fa riflettere sul fatto che questa scelta viene compresa solo se siamo in presenza di situazioni che superano i limiti della legalità: «sembra che ci si possa arrivare solo a fronte di cose gravissime, come violenza fisica, abusi, tossicodipendenza, alcolismo. Mi fa sorridere pensare che l’unica serie tv che ho visto nella quale c’è una figlia che decide di non avere rapporti col padre è Happy Face, ma succede perché lui è un serial killer!».

Invece, quello che vi ho sopra descritto rientra in un rapporto apparentemente funzionale, senza "gravità".

Immagino che a questo punto arriveranno i difensori della patria a dire: “Eh ma è sempre colpa dei genitori! Qualsiasi cosa facciamo è sbagliato! E invece quello che fanno i figli?”. Proprio da questo si vede la totale mancanza di comprensione della genitorialità nella sua forma più completa e articolata: il ruolo del genitore è diverso da quello del figlio.

Il genitore ha la responsabilità fisica, emotiva, affettiva, relazionale, di cura, di protezione del figlio, nel momento in cui decide di procreare. Non c’è scelta, non c’è una via di mezzo, non c’è altra possibilità: è un contratto a senso unico, perché senza tutte le suddette cose, il bambino non cresce, non vive, non esiste.

Dall’altra parte, il figlio non firma nessun contratto, non sa neanche che è nato, non sa cos’è il mondo. Semplicemente vive…se gli adulti glielo permettono.

Capite bene che i ruoli prevedono azioni e obblighi ben diversi. È unidirezionale.

Il genitore deve amare il figlio, il figlio non è obbligato a farlo.


Per questo le coppie genitoriali andrebbero supportare prima della decisione di fare un figlio, nel mentre e anche dopo. Perché è una scelta di vita. Complessa, ardua, immersiva. Purtroppo sappiamo bene che nella nostra società, invece, questa consapevolezza manca come mancano aiuti per queste coppie, ritrovandoci di fronte a genitorialità non volute, non desiderate, ma fatte, a causa di incastri relazionali e vissuti irrisolti, come spiega l’altra intervistata, Denise D’Angelilli, podcaster, autrice e content creator.


La scelta del No Contact non è arrendersi, non è fregarsene, non è egocentrismo, non è cattiveria.

È dolore.

È salvezza.

Non è semplice.

Non si fa dall’oggi al domani.


Poiché il compito della psicoterapia è accompagnare il paziente in un lungo viaggio in cui ci saranno vissuti, decisioni, scelte, esperienze uniche alla persona, questo articolo non vuole assolutamente indicare la strada come un cartello del senso unico, ma far riflettere sul fatto che il No Contact è una scelta possibile e attuabile.


 

 

 




 

 


 
 
 

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