La parola "conclusione" appare di solito con un'aurea negativa, perché spesso la associamo alla fine di una storia, a qualcosa che termina. Poche volte riusciamo a vedere che dietro una fine c'è sempre un nuovo inizio. Difficile per la nostra cultura festeggiare qualcosa che finisce, che non c'è più; siamo abituati a celebrare il nuovo, quello che inizia.
Dovremmo forse soffermarci su cosa vuol dire concludere un percorso di vita, lavorativo, una storia che ci ha fatto male; potrebbe essere una rinascita, una soddisfazione dei nostri sacrifici, un riconoscimento del nostro lavoro, del nostro dolore, del nostro impegno.
Le conclusioni hanno quel retrogusto di malinconia che poco ci piace; non siamo abituati a stare nelle emozioni "negative", in quel sottile dolore per qualcosa che abbiamo vissuto e ora non c'è più, quel qualcosa che però è stato bello, entusiasmante, pieno, che adesso non riusciamo a lasciare andare. Allora è meglio chiudere nettamente e fare finta di niente, oppure non chiudere mai, così da evitare il dolore e la nostalgia.
Eppure mettere quel punto, con tutto ciò che ne consegue serve, è necessario. Un po' come succede per il rito funebre; abbiamo bisogno di piangere, di attraversare il rito, di fare i nostri rituali, per poi poterlo ricordare, per soffrire ancora, poi soffrire meno, infine non soffrire quasi più.
Quel punto ci serve, quella malinconia è vitale quando la attraversiamo, quando la usiamo come spinta per un nuovo inizio.
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